Digital divide e istruzione: quanto ci perde il mondo del lavoro e delle imprese se a scuola non abbandoniamo penna e calamaio?

I miei figli non sono in età scolare da un pezzo ma il tema scuola, rovente in questi giorni, mi tocca da vicino non solo come individuo e cittadino ma anche come imprenditore. La maggioranza dei miei collaboratori ha figli fra i 2 ed i 14 anni e quello dell’istruzione è un argomento che suscita forti preoccupazioni legate alla ripresa, alla sicurezza, alla capacità del sistema educativo del Paese di rispondere alle necessità sia di supporto delle famiglie, sia di formazione delle generazioni future. Al di là del momento contingente, sono diversi gli interrogativi che mi sono posto, specialmente in questi mesi, sul tema dell’istruzione nel nostro Paese.

Ho letto recentemente un articolo molto interessante ne Il Sole 24 Ore dal titolo “Studiare tanto e imparare poco: il gap digitale della scuola italiana”. Nell’articolo si evidenzia come gli studenti italiani passano molte più ore a fare i compiti a casa rispetto ai loro coetanei europei, conseguenza di una organizzazione ancora molto fisica della nostra didattica, che limita – a volte impedisce – la fruizione di contenuti interattivi e digitali che possono fare la differenza nei livelli di performance e di apprendimento.

La scuola è iniziata qualche giorno fa. Tra dubbi, critiche, speculazioni e incognite, il Futuro del Paese si divide tra i banchi e le video lezioni, tra docenti di ruolo e docenti “d’emergenza”, tra Nord e Sud. Accomunati da nuove regole, nuovi modi di fare, di intendere e vivere la didattica, il nostro Futuro è lì. Ma è un Futuro che soffre una differenziazione che risponde al nome di digital divide.

Non commettiamo l’errore di pensare che il digital divide significhi trasformare gli archivi o i documenti da cartacei a file pdf, mettere qualche computer qua e là e usare di più internet.

No, la digitalizzazione è un mindset, come dicono quelli più bravi di me. Il tema, se vogliamo, è di organizzazione e di business model. Non cambi i processi di un’azienda, di una scuola, di un ministero semplicemente introducendo uno strumento digitale. E’ necessario un ripensamento totale di quel processo, non possiamo pensare che ciò che andava bene con la carta possa andare bene con i big data o l’artificial intelligence. E qui sta il mio primo “cruccio”: la tecnologia è uno “state of mind”, un cambiamento che deve essere nel DNA dell’organizzazione di un’azienda o di una famiglia, o di una scuola. Parte dalla nostra attitudine, dal business model delle imprese, dalla capacità di mettere in discussione ciò che si è fatto per decenni in un modo e che ora non va più bene. Ripensare processi è in primis un’ammissione di coraggio. Ed è il primo step per chiudere il digital divide.

Andiamo al secondo step. Si parla da moltissimi anni di formazione al digitale, ma nonostante programmi pubblici e privati, il nostro Paese è ancora alle prese con l’inserimento di competenze digitali nei piani di studio, dai primissimi gradi scolastici fino all’Università. Sono di qualche settimana fa i dati del Desi Index 2020, l’indice di digitalizzazione dell’economia e della società, che dicono che solo il 42% degli italiani ha competenze digitali di base (contro la media Ue del 58%) e che solo l’1% dei laureati possiede un titolo in area ICT (con il 3,6% dell’occupazione totale).

Al contempo, il mercato del lavoro richiede profili ad alto tasso tecnologico, competenti in aree del digitale sempre più specializzate – penso alla computer science, all’ingegneria dei dati, all’artificial intelligence – che vengono applicate ad ambiti che si pensava fossero “riservati” a chi aveva seguito percorsi di studio specifici. Faccio un esempio: i big data oggi vengono applicati, in certe realtà, al settore legale; un supporto tecnologico nel districarsi tra dati dubbi o mancanti, informazioni da verificare, pratiche da confrontare oggi vale moltissimo, sia in termini economici che di competitività. Lo stesso si applica al mondo del credito. Mai avrei immaginato, oltre 30 anni fa, quando iniziai a pensare a Fire, che questo sarebbe stato il contesto nel quale un imprenditore si sarebbe potuto trovare. E, senza peccare di modestia, sono sempre stato un po’ visionario nelle mie idee di business.

Torniamo al digital divide: scollamento fra le figure ad alto tasso tecnologico richieste dal mercato del lavoro e quelle “sfornate” dalle nostre Università. Ma anche delle competenze digitali, di base e specialistiche, che mancano a tutte le altre professioni, se vogliamo che queste rimangano competitive a livello globale. E certo che lo vogliamo.

Il mercato del lavoro non è più solo quello disegnato nelle cartine geografiche. Va oltre i confini nazionali, oltre ogni città e azienda.

L’azienda statunitense può trovare una risorsa in Italia e viceversa, la può assumere su LinkedIn in pochissimo tempo e avendo verificato competenze e attitudine solo in via digitale. Al tempo stesso un avvocato, un medico, un insegnante – un professionista oggi deve essere alfabetizzato digitalmente al pari dei colleghi Europei per poter contribuire ad un cambiamento diffuso.

Guardo alla situazione dell’educazione italiana da imprenditore, da cittadino, da padre e da nonno. Se c’è qualcosa che la pandemia Covid ci ha insegnato, è ad essere più disponibili, aperti. Aperti anche a ridurre il gap digitale che nei mesi scorsi e con la riapertura delle scuole è tornato a evidenziare la discrepanza tra persone, aree geografiche e sistemi educativi. Ecco dunque che il punto di partenza deve essere, ancora una volta, la scuola. #EducationFirst, come si dice molto spesso nei social media. Il lavoro ci richiede di essere nativi digitali, ma ci troviamo a fare i conti con un sistema scolastico che, nonostante debba essere il promotore della digitalizzazione verso tutti gli studenti, è invece il primo blocco ad un approccio digitale che è necessario, dato che siamo di fronte ad un sistema che si rivolge agli studenti con metodologie ormai anacronistiche.

Profondamente intrecciato al tema della scuola e del digital divide è il sistema delle infrastrutture. E’ di qualche giorno fa la notizia di una scuola del centro Italia che ha ricevuto una importante dotazione di pc per i propri studenti. Ma purtroppo manca la banda che regga il loro utilizzo efficiente. Si tratta fra l’altro non solo dell’infrastruttura pubblica, ma anche di quella privata, dal momento che oggi si parla di ibridazione fra didattica in presenza con quella a distanza. In aggiunta, la situazione richiede anche una attenta analisi del contesto socio-economico che va indirizzato da parte del Governo.

Il lockdown ha fatto emergere il gap che esiste fra studenti dotati di dispositivi che permettessero loro di fruire della didattica a distanza (sapendoli usare correttamente, da soli o assistiti da familiari adeguatamente alfabetizzati in merito) e quelli appartenenti alle fasce di popolazione in cui un tablet con connessione veloce è ancora un lusso.

Se consideriamo che la scuola è non solo lo strumento principale per combattere le disuguaglianze economiche, agendo alla base delle stesse, ma anche la fucina dei lavoratori di domani, ci renderemmo conto che è soprattutto il mondo del lavoro a beneficiare di migliori livelli di istruzione.

Il dialogo fra scuola e lavoro è ancora troppo debole per poter far sì che quanto fatto in azienda abbia un impatto sull’istruzione. Noi aziende arriviamo dopo, al momento dello stage, del primo lavoro, troppo tardi. Tuttavia, possiamo intervenire con programmi di alfabetizzazione digitale su tutte le nostre persone, in maniera costante. Parallelamente, un intervento centrale è l’investimento in tecnologia per digitalizzare i nostri processi a beneficio di tutti gli stakeholder. Ecco allora che il collaboratore che ne apprende o perfeziona l’uso, si porta quella competenza a casa, a beneficio della sua rete familiare, oppure il cliente che ottiene un servizio al passo coi tempi o il fornitore, se vuole restare tale, deve digitalizzarsi allo stesso modo. Economia circolare? Si, che fa rima con consapevolezza digitale.

Paolo Gentiloni, Commissario all’Economia, parlando dell’utilizzo del Recovery Fund da parte dei diversi Paesi Europei, che avranno una certa discrezionalità in merito, ha sottolineato l’importanza di sfruttare i fondi con lungimiranza, destinandone una fetta consistente alla transizione digitale e all’innovazione, con focus su scuola e ricerca.

Non possiamo perdere questo treno digitale. Magari non è di quelli che passano solo una volta, ma la prossima potrebbe essere tardi per l’Italia ed il suo futuro.

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